Nel vuoto di San Pietro, meglio “Habemus Papam” che “Conclave” (e anche di “The Young Pope”)

“Chi ha paura non può essere libero, chi ha paura non può amare.”
Papa Francesco

La morte di Papa Francesco ha lasciato il mondo cattolico in un silenzio denso, quasi irreale. I funerali devono ancora essere celebrati, e già Piazza San Pietro è tornata a essere, come nei momenti storici più solenni, un luogo di attesa. Ma non è solo il trono di Pietro a essere vacante: è l’orizzonte stesso della Chiesa a sembrare in pausa, come se il tempo si fosse fermato per prendere fiato.

In questa atmosfera sospesa, in cui il lutto si mescola alla riflessione e l’opinione pubblica si interroga sul futuro del cattolicesimo, anche il cinema torna a dire la sua. Eppure non sempre nel modo giusto.

Un mese fa è uscito Conclave, film ambientato all’interno delle mura vaticane, nel cuore dell’elezione papale. Un’opera che, almeno sulla carta, sembra perfetta per questo momento: tensione, segreti, cardinali in lotta sotto gli affreschi della Sistina. Ma alla prova dello schermo, il film finisce per rivelare tutta la sua freddezza. Nonostante la qualità visiva e l’accuratezza scenografica, Conclave rimane un racconto tecnico, chiuso nella logica del potere, più attento al meccanismo che all’anima.

C’è invece un altro titolo, uscito più di dieci anni fa, che oggi parla con voce limpida e sorprendentemente attuale: Habemus Papam di Nanni Moretti. Un film che, nel 2011, sembrava quasi una parabola ironica sull’autorità, ma che oggi appare come un piccolo capolavoro di intuizione umana e spirituale. Racconta di un papa appena eletto che, invece di affacciarsi al mondo, si ritira. Colto da un panico interiore che lo rende incapace di assumere il ruolo. Non è una fuga dal dovere, ma una confessione onesta. Un “non ce la faccio” che vale più di mille discorsi ben scritti.

Nel tempo del dopo-Francesco, un papa che ha scelto la mitezza, il contatto umano, la parola semplice, Habemus Papam risuona con una verità disarmante. È un film che non ci racconta come si elegge un papa, ma perché un uomo potrebbe non volerlo essere.

E poi c’è The Young Pope, la serie di Paolo Sorrentino. Un’opera stilisticamente radicale, estetizzante, surreale. Jude Law, nei panni di Pio XIII, incarna un pontefice giovane, spietato, enigmatico, che gioca col potere e con Dio in un continuo cortocircuito tra fede e spettacolo. È un papa che non cerca l’amore, ma il terrore. Che rifiuta la modernità, chiude le porte, e si fa icona vivente di un’autorità misteriosa, quasi mistica.

Sorrentino costruisce un’opera visivamente straordinaria e teologicamente provocatoria, capace di affascinare e disturbare. Ma The Young Pope è anche, in fondo, una parabola sull’invisibilità di Dio e sull’isolamento del potere. È un racconto alto, iperbolico, dove la figura papale si fa mito più che carne.

Nel confronto con Conclave e Habemus Papam, allora, la serie di Sorrentino occupa un altro piano: quello del simbolo. Se il primo film si concentra sull’apparato, e il secondo sull’uomo, The Young Pope mette in scena l’idea di papato come mistero insondabile, come maschera assoluta che nasconde il vuoto o la grazia.

Ma oggi, nell’istante fragile che segue la morte di Francesco, è forse proprio questa astrazione a renderla meno urgente. Più che miti da contemplare, abbiamo bisogno di figure da comprendere. Più che estetica, ci serve empatia.

Per questo, tra i tre sguardi, quello di Moretti resta il più vero. Habemus Papam è il film che oggi ci aiuta a stare dentro l’incertezza senza temerla. Che ci ricorda che la Chiesa non è fatta solo di conclavi, né di ideali irraggiungibili, ma di persone che tremano prima di dire “eccomi”.

Mentre la Cappella Sistina si prepara a tornare teatro del Conclave reale, e il mondo attende una nuova fumata bianca, la domanda più profonda non è “chi verrà?”, ma “chi sarà capace di restare umano?”. E in questa domanda, dolce e necessaria, Habemus Papam è ancora una volta la risposta più sincera.

Carlo Di Stanislao <[email protected]>

Foto estratta da RAI Italia

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