Ci sono almeno due validi motivi per indurre Trump ad essere più conciliante nella sua politica aggressiva dei dazi verso gli altri paesi del mondo. C’è voluto il caos commerciale e il crollo delle borse per indurlo a sospendere per novanta giorni l’applicazione dei dazi. Si spera che in questo lasso di tempo ci sia qualcuno che faccia capire al Presidente che così facendo non si va da nessuna parte: i danni saranno per tutti, per chi subisce i dazi e per chi li mette. Ma andiamo con ordine.
Primo. L’obiettivo dichiarato di Trump è quello di indurre le aziende a produrre in America, dove sarebbero esentate dai dazi. La tanto sbandierata offerta al Canada di diventare il 51° stato americano è basata proprio su questo. Egli pensa che se le aziende, per evitare i dazi, installano le loro produzioni in America, aumenteranno i posti di lavoro e si creeranno migliori condizioni di sviluppo. E se ciò non avvenisse ci sarebbero comunque i dazi per favorire l’acquisto di prodotti americani, nella speranza (vana) che i loro prezzi non si allineino, verso l’alto, a quelli delle merci importate gravate dai dazi.
Occorre che qualcuno ricordi al tycoon che il costo della manodopera impiegata nei prodotti che arrivano dall’estero è sensibilmente più basso dello stipendio medio di un operaio americano. Per non aumentare il costo della produzione interna si dovrebbero abbassare i salari. Se ciò è impopolare persino pensarlo, significa che occorrerà aumentare i prezzi delle merci prodotte. Circostanze queste che il cittadino americano certamente non auspica, perché o diminuirebbe il suo potere di acquisto o aumenterebbe l’inflazione.
Secondo. L’America ha un debito pubblico, stimato ad aprile 2025, di 36.218 miliardi di dollari, equivalenti al 120% del PIL. Il debito pubblico viene continuamente rinnovato alle scadenze, attraverso la sottoscrizione di nuovi titoli di stato (detti bond).
Il punto è il seguente: l’America può indebitarsi molto e sostenere l’elevato tenore di vita dei suoi cittadini e la spesa per armamenti perché ci sono persone, banche, istituzioni, investitori che comprano il suo debito pubblico. Gli acquirenti però non sono tutti americani: un quarto del debito circa è detenuto all’estero. Detto così sembra che non ci sia nulla di strano, perché anche altri Stati hanno parte del proprio debito pubblico in mani straniere.
La singolarità, però, sta nell’ammontare enorme del debito. Se per motivi di crisi indotta dai dazi o per motivi geopolitici (es. guerra commerciale con la Cina) l’estero non comprasse più il debito pubblico dell’America (circa 8.500 miliardi di dollari), essendo difficilmente sostituibile una così grande mole di denaro, l’Amministrazione a stelle e strisce, sarebbe costretta ad aumentare fortemente il saggio d’interesse offerto per rendere appetibili i suoi bond, innescando così una spirale inflazionistica oltremodo dannosa per cittadini e istituzioni.
Com’è facile vedere la globalizzazione in atto non può essere facilmente ricondotta al primato dei singoli Stati. Tutto si tiene e fughe isolazionistiche (America First) rischiano solo di fare danni a sé e agli altri.
FRANCA COLOZZO <[email protected]>